tratto da La casa di Bernarda Alba di Federico Garcìa Lorca riletto attraverso La terra de rimorso di Ernesto de Martino
con Massimiliano Balduzzi (la vecchia serva), Nenè Barini (una sorella), Maria Serena Bellodi (una sorella), Sara Corso (una sorella), Céline Kraus (la piccola serva), Francesca Tamagnini (una sorella), Anna Teotti (una sorella), Christophe Tostain (il visitatore)
regia e dramaturgia Anne Zénour
realizzato al Capanno di Ribatti (Toscana) nel 2004; presentato tra il 2004 e il 2005 al Capanno di Ribatti, Siena, Modena
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E che cos’hai, tu, da dimenticare?
Lorca scrisse questo dramma nel ’36, poco tempo prima di essere ammazzato dalle squadre franchiste. In una casa vicina a quella dei suoi in campagna, viveva una donna astiosa e autoritaria che teneva sempre chiuse le figlie e le serve; Lorca si accorse che poteva sentire le loro voci scendendo in fondo a un pozzo secco situato nel suo giardino; fu così che cominciò a scrivere La casa di Bernarda Alba.
Le voci delle sorelle Alba sono risuonate per noi come voci indistinte di donne represse: ciascuna poteva a turno assumere la cattiveria, il desiderio, l’odio, la gelosia, la tristezza, o anche la voce della madre-tiranna per schiacciare le altre, o per distruggere se stessa. Pur seguendo di vicino il testo originale, abbiamo scelto una situazione di partenza diversa:
Bernarda, la madre despota, è appena morta. Le sue figlie si ritrovano dopo il funerale nella casa familiare dove risuona ancora la voce terrificante che ha per anni regolato la loro vita, negando loro per sempre qualsiasi rapporto con un uomo. Sono d’un colpo invase dai ricordi e in particolare da quello di un’altra morte: quella della sorella Adele, spinta al suicidio dalla gelosia di una di loro e dalla violenza della madre. Rievocano la lunga giornata che ha preceduto la morte della sorella, compiendo una specie di via crucis del piccolo inferno familiare, una cerimonia improvvisata nella quale sono come trascinate, a volte in modo derisorio o sognante, a volte con una voglia spudorata di esibirsi, tirando fuori i rancori e le amarezze, i sogni ormai ridicoli di amore e di piacere come, in un certo modo, le tarantate di cui parla Ernesto de Martino nel suo libro La terra del rimorso: “In tal guisa le donne di qualsiasi ceto, che il costume condannava ad un aspro regime di erotiche preclusioni, partecipavano a questi “carnevaletti di donne”; ognuna poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria esistenza.”
Il testo di Lorca è preso come una partitura corale. Non sono assegnate delle parti. Durante il tempo di questa rievocazione, ciascuna “recita” a turno l’una o l’altra sorella, o la madre, o la serva. Come nel testo originale, comincia con il lamento funebre e finisce con il suicidio. Un visitatore, l’uomo che non hanno mai avuto, muto, invisibile a loro per la maggior parte del tempo, le guarda, le ascolta, passa in mezzo a loro, le fa ballare.
Una musica funebre, suonata da una banda siciliana, scandisce in modo ossessivo questo “carnevaletto di donne”.