tratto da Agamennone di Eschilo
con Massimiliano Balduzzi (il guerriero malinconico), Nenè Barini (la donna che non ha paura dei cani), Sara Corso (la donna dalle mani veloci), Piera Cristiani (la cannonata dell’avvenire), Federico Tessieri (il comandante fuori rotta), Anna Teotti (Niarulina)
regia e drammaturgia Anne Zénour
realizzato al Capanno di Ribatti (Toscana) nel 2003; presentato tra il 2003 e il 2005 al Capanno di Ribatti, Cremona, Bologna, Siena
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“La sigaretta di un carcerato ai primi piovaschi dell’autunno, l’eroe dimenticato, ormai in pensione, con le scarpe rotte… La sera ricordiamo cose perdute – un uccello malato, due versi di Porfiras, case bruciate, manifestazioni, cartelli, bandiere a mezz’asta, un antico scenario sbiadito…”
da Studio dell’ultimo ruolo di Yannis Ritsos
Entrano. Sono sei. Cinque adulti e una ragazzina. Sono stanchi, forse da un lungo viaggio, da una lunga erranza. Sono dei commedianti in fuga dal proprio paese, accomunati dall’esilio e dalla memoria di un tempo lontano in cui avevano recitato insieme. Si assopiscono. Uno non riesce a dormire e comincia a borbottare le parole della sentinella all’inizio dell’Agamennone di Eschilo: “Dei, vi chiedo che finisca presto questa pena…” Così, all’improvviso, le parole e gli eroi della tragedia risorgono e la vecchia recita riprende vita. Cosa rivivono attraverso questo testo che evoca continuamente i morti, le vittime della violenza e della presunzione dei potenti, l’empietà dei vincitori, “il tormento di chi è stato ucciso” che “può sempre ridestarsi…”? È un’occasione per sfogarsi, per esibirsi, per accusare qualcuno forse, e chi? I potenti della terra, Dio, uno dei compagni d’esilio?
Hai dimenticato? Hai dimenticato quando è morto tuo padre? Hai dimenticato come è morto tuo padre?
Queste parole di un poeta coreano, le sue poesie, quelle di Yannis Ritsos e altri testi scelti singolarmente da ciascun attore (Antonio Lobo-Antunes, Etty Hillesum, Edna O’Brien, Primo Levi, Cesare Pavese, Mario Rigoni-Stern, Nuto Revelli) – testi che dicono la necessità di “non dimenticare” o evocano la situazione dei sopravvissuti a una guerra – sono stati molto importanti per avvicinarsi al testo di Eschilo, per sentirne la stupefacente attualità.
L’elaborazione dello spettacolo si è svolta su un lungo tempo in diverse tappe e ciascuna ha nutrito in modo diverso il lavoro. La prima è stata in Toscana, dove siamo stati ospitati per due mesi nella primavera del 2001. Il lavoro all’esterno è stato allora fondamentale: andare attraverso la campagna, da viandanti, da soli, o insieme, rimuginando il testo di Eschilo, correndo o camminando, attenti al minimo mutamento del paesaggio, al cielo, ai propri ritmi, sotto il sole, la pioggia, o nelle tempeste che invadevano anche la sala di lavoro attraverso le grandi aperture prima destinate a far passare l’aria per il fieno. Questo primo incontro ha permesso di tessere dei legami forti tra i membri di quel gruppo errante, di sentire poco a poco un vissuto comune, ha permesso di cercare le parole del testo che per ciascuno erano significative e collegate alla propria storia di esule. Un’altra tappa importante è stata il Teatro Polivalente Occupato di Bologna che ci ha ospitati nel 2002 e 2003: un relitto urbano in cui la situazione di questi esuli e il testo della tragedia hanno trovato altre risonanze, altrettanto forti. Importante anche perché ai cinque commedianti del gruppo iniziale si è aggiunta Niarulina, la piccola che guarda tutto, ride, piange, e illumina a suo modo il decorso della tragedia.